martedì 8 dicembre 2009

Senza titolo - Capitolo 2

Ricordo con memoria fotografica il giorno in cui incontrai per la prima volta Davide. Fu in una fredda ma assolata giornata di novembre. Ero seduta ad uno dei tavolini del bar della stazione, appena arrivata da Perugia, mia città natale e nella quale ero vissuta fino a quel momento.
Appena conseguita la mia laurea in giurisprudenza "cum laudae", avevo deciso di partire e cercare altrove uno studio dove fare il praticantato che mi permettesse di poter sostenere l'esame per l'abilitazione alla professione forense. La mia scelta non era legata alla mancanza di opportunità a Perugia bensì alla necessità di cambiare aria e iniziare a mettermi in gioco. Fino al conseguimento della laurea, e cioè ai miei 25 anni, ho vissuto sempre con la mia famiglia che è composta, oltre che dai miei genitori, da Claudia, mia sorella maggiore. Lei, dopo essersi laureata in veterinaria, ha vinto un concorso presso il canile municipale di un paesino vicino Perugia, Spello, e, ancora oggi, vive con i nostri genitori facendo la pendolare tutti i santi giorni.


Io neanche ci ho provato a cercare un lavoro a Perugia. Avevo una mia amica, Paola, di due anni più grande di me, che si era trasferita l'anno prima a Mantova con il ragazzo. Lui era indigeno e faceva il portalettere con un contratto da precario. Lei, poco dopo essersi trasferita da lui, aveva trovato lavoro come commessa presso un centro commerciale poco fuori la città. Lavorava in un negozio di intimo. Paola non è solo un'amica, è la mia migliore amica. Ci conosciamo dai tempi della scuola media e, anche se abbiamo preso strade diverse (lei prese un diploma in ragioneria e si mise subito a lavorare mentre io presi la maturità classica e mi iscrissi a legge), non ci siamo mai perse di vista. E dopo la mia laurea mi aiutò a cercare una sistemazione a Mantova dove avevo deciso di trasferirmi anche io.

Quella mattina ero partita presto da Perugia con il treno. Ma non esiste un treno diretto che porti da Perugia a Mantova. E quindi dovetti prendere la coincidenza a Modena e arrivai a destinazione soltanto nel primo pomeriggio. Mi fermai al bar della stazione per mangiare qualcosa: ero stanca ed affamata! Mentre ero seduta e concentrata ad azzannare il mio tramezzino tonno e maionese, si avvicinò al mio tavolo un giovane sulla trentina, capelli castani, barba molto curata, pullover rosso con cravatta verde. Mi chiese se poteva sedersi al tavolo. «Sì, certamente!» risposi con un'espressione che lasciò trapelare un po' di imbarazzo. «Lasci che mi presenti, Davide Caselli» mi disse porgendomi la mano. «Laura Di Giorgio, piacere». Iniziammo a conversare e mi confessò di essere un penalista. E' stato allora che ho iniziato a pensare che il caso, quando vuole, lavora davvero bene.

sabato 28 novembre 2009

Ragione e sentimento

Dopo aver passato l'ultimo anno e mezzo nel quale il tasso d'inflazione dei miei rapporti umani è schizzato alle stelle come neanche il prezzo della benzina durante il periodo della crisi petrolifera, sto attraversando un fase di profonda riflessione. Mi sono fermato, ho cercato di consolidare alcune relazioni e provato a comprendere il senso di altre. Insomma, dopo la fase entusiastica dovuta alla curiosità che una nuova conoscenza provoca, subentra un momento in cui si cerca di dare una forma alle cose per trovargli la giusta collocazione. Se io ho un contenitore di forma cubica con i lati di un metro mi risulterà difficile farci entrare una barra lunga due. Allo stesso tempo sarebbe sprecato se lo usassi per conservare un ago senza contare il fatto che rischierei di perderlo in una scatola molto più grande di esso.

In questa operazione di catalogazione dei miei rapporti, un vero lavoro da bibliotecario, spesso entrano in gioco fattori che quest'ultimo deve assolutamente rifuggere se vuole raggiungere l'obiettivo di realizzare una classificazione corretta. Questi agenti che interferiscono nel nostro assegnare un posto alle persone che ci circonda e con le quali vogliamo intrattenere rapporti, sono per lo più fattori emozionali. Non riguardano solo la nostra emotività ma anche quelle delle persone con le quali ci rapportiamo. Con la conseguenza che spesso ci troviamo a giudicare ragionevole il sovrastimare alcuni rapporti soltanto perché magari, anche solo una volta nella vita, ci hanno fatto provare una sensazione di benessere che mai abbiamo riprovato e che probabilmente difficilmente riproveremo anche nel caso in cui quel rapporto rimanga in atto. Allo stesso tempo ci sembra normale sottostimare relazioni che ci donano serenità ma non sono in grado di andare oltre una quotidiana normalità.

Non credo che sia un argomento che si possa affrontare in un post e mi riprometto di ritornarci sopra. Ma per adesso mi accontento di porre la questione: ha senso usare il proprio tempo per capire il valore umano di un rapporto o forse è meglio viverlo per quello che è e finché dura cercando di prendere il buono che può darci senza farsi troppe domande?

domenica 22 novembre 2009

Riflessioni

Rifletto su una serie di cose ma nessuna di queste mi mostra l'immagine di me che mi aspetto. Mi chiedo se allora sono le cose su cui rifletto che deformano la realtà o se sono io che ho un'immagine deformata di me.

sabato 21 novembre 2009

Senza titolo - Capitolo 1

Lo studio di Davide si trova al quarto piano di una zona residenziale di Mantova. E' un ufficio ricavato da un appartamento nel quale prima viveva il nonno, morto circa due anni fa. Non è particolarmente ampio ma ha la signorilità necessaria per far ritenere che Davide non sia un avvocato per tutti.

Quella mattina, era un martedì, e me lo ricordo bene perché è il giorno della settimana nel quale regolarmente passo alla posta per inviare il mazzetto di raccomandate per conto dell'avvocato, arrivai al lavoro piuttosto turbata per uno strano sogno fatto durante la notte. Ma non lo raccontai a nessuno, spiegando a chi mi chiedeva se andasse tutto bene, che non avevo dormito bene a causa dei rumori provenienti dall'appartamento dei vicini, una giovane coppia molto focosa che, complici le mura non particolarmente spesse, aveva accompagnato la mia notte insonne con gemiti e urla da far invidia a Tarzan. Non era una completa bugia perché accade spesso che i vicini disturbino il mio sonno con le loro gesta erotiche. Ma non quella notte.

Appena entrata nell'ufficio dell'avvocato, una folata di vento fece cadere per terra una lettera. Le ante della finestra si chiusero di colpo come anche la porta dello studio. Istintivamente mi chinai per raccogliere il foglio di carta e proprio in quell'istante arrivò Davide che mi disse: «Lasci pure Laura, ci penso io - soggiungendo - Mi può portare la pratica "Maurizi", per favore?» «Subito avvocato!». Avevo comunque già capito che non si trattava di una lettera di lavoro in quanto la carta non era intestata ed era stata scritta a penna, con una stilografica per la precisione. Non ho mai compreso il motivo che spinge le persone ad usare la penna stilografica che ho sempre ritenuto uno dei più stupidi status symbol, retaggio di un passato in cui il signor Biro ancora non aveva inventato la penna a sfera, incredibilmente più comoda e funzionale. Ma sembra che lo scrivere con la stilo conferisca maggiore solennità alle parole. E questo mi diede a pensare che la lettera era di quelle importanti.

Cosa farò da grande?

Cher Petit Prince,
tra un anno esatto avrò superato di una settimana il mio trentesimo anno su questo pianeta. Ho sempre considerato i 30 anni come lo spartiacque tra il me ragazzo e il me adulto ed adesso che questo momento si sta avvicinando, sento come sempre più impellente la domanda che tutti ti iniziano a fare da quando hai più o meno 10 anni: cosa farai da grande? Chissà poi perché queste cose le vengo a raccontare a te che hai fatto del tuo essere bambino la tua forza, quella che ti ha permesso di guardare il mondo senza tutte quelle sovrastrutture, o altrimenti dette impalcature, che ci fanno credere di essere più in alto degli altri ed estranei al contesto e che quindi sentire autorizzati a giudicare tutto ciò che ci circonda in nome di non si sa quale autorità.
Comunque, tornando a noi, la domanda "Cosa farai da grande?" perseguita ogni uomo fino a quando questo non diventa davvero adulto. E questo accade quando si dimentica dell'importanza di trovare la risposta. Quindi io sono ben lungi dal diventare un adulto... Che poi non è neanche detto che uno ci diventi mai adulto. La chiamano sindrome di Peter Pan e pare che ci sia un sacco di gente che ne sia affetta.
In realtà credo che la situazione sia più complessa, che ci sia una parte di me che è già adulta ed una che è rimasta ancora bambina. Non manca poi la parte adolescente e quella anziana. Insomma penso che lo status di maturità di un uomo si misuri da quanto ciascuna di queste parti pesi rispetto alle altre. Che quella di bambino sono convinto che debba sempre restare che serve a vedere le cose per come sono; che quella di adolescente a credere che si può ancora cambiare qualcosa sognandolo; che quella adulta a concretizzare quel sogno; che quella anziana, sembra paradossale ma è così, a ritornare con i piedi sulla terra, possibilmente non sotto, arteriosclerosi permettendo. Qualcuno che conosco non condividerebbe questo mio frazionare la realtà, direbbe che essa è una ed uno non può essere contemporaneamente bambino ed adulto, anziano e adolescente. E mi domando se abbia ragione lui. Io mica sono più tanto sicuro che tra un anno avrò smesso di chiedermi cosa farò da grande.